Caverni, Raffaello, Storia del metodo sperimentale in Italia, 1891-1900

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              <s>
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              il diritto riserbato al solo Aristotile era proprio del libero ingegno
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              di ogni uomo. </s>
              <s>Dall'altra parte Realdo Colombo aveva dato i più
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              savii esempii di quella filosofica libertà, e ne avea raccolti squisi­
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              tissimi frutti. </s>
              <s>Infin dalla seconda metà del secolo XVI, s'eran dun­
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              que fatti nella via del metodo sperimentale notabili progressi, a
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              rendere i quali più spediti mancavano ancora due cose: che dai
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              cultori dell'arte passassero gli esercizii sperimentali ne'libri dei
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              filosofi, e che il soggetto anatomico in che erasi ristretto il Colombo
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              si estendesse a ogni sorta di fatti naturali. </s>
              <s>Ad adempire a un tale
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              ufficio furono deputati, nell'ordine della Storia, due napoletani,
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              Giovan Battista Porta e Ferrante Imperato, o come altri vuole Co­
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              lantonio Stalliola, su'due quali conviene a noi ora intrattenere al­
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              quanto il nostro Discorso. </s>
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              <s>Il Porta, che morì nel 1615, si trovò spettatore e parte alla
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              inaugurazione de'trionfi di Galileo, e vide sboccare i rivi della sua
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              scienza a rimescolarsi con le larghe onde sonanti di questo fiume
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              reale. </s>
              <s>A molti que'rivi parvero scarsi, alcuni altri di più gli repu­
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              tarono impuri e limacciosi. </s>
              <s>Martino Hasdale si sforza di convincere
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              con infinite tare il nostro Napoletano, dicendo ch'ei
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              non intendeva
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              molti capitoli della Magìa, nè manco la sapeva spiegare in vol­
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              gare, iscusandosi che erano tutte cose avute da altri così scritte
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              in latino, come stavano stampate nel suo libro
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              (Alb. </s>
              <s>VIII, 84). Il
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              Sagredo giudica il libro della Magìa Naturale
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              goffissimo al possibile,
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              e stima che l'Autore fra'dotti
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              tenga il luogo che tengono le cam­
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              pane tra gli strumenti di musica
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              (Alb. </s>
              <s>Suppl., pag. </s>
              <s>67, 68). Que­
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              sti giudizi erano pronunziati al cospetto di Galileo, che tacendo,
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              compiacente acconsentiva. </s>
              <s>Il Kepler però ne giudicava più retta­
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              mente, e con animo imparziale. </s>
              <s>Ringraziava da un lato il Porta che
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              gli avesse insegnato il modo come si fa la vista, e dall'altro non
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              taceva che certe conclusioni ottiche di lui erano
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              ex insufficienti et
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              non universali demonstratione profectae
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              (Paralip. </s>
              <s>ad Vitell., Fran­
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              cof. </s>
              <s>1604, pag. </s>
              <s>180). </s>
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              <s>Con questo giudizio del Kepler però si concilia il giudizio dello
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              stesso Sagredo, uomo da non perdere il senno per compiacere al
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              suo Galileo. </s>
              <s>Egli infatti veniva a dire che nel libro della Magìa vi
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              erano delle gofferie, ma ci aveva pur trovata anco quella gran ve­
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              rità della teorica della visione. </s>
              <s>Dall'altra parte l'esempio delle cam­
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              pane, alle quali si fa dir quel che uno vuole, era benissimo applicato
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              a qualificar quegli enimmi, di cui il Porta tanto si compiace. </s>
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              sentenziar poi che il Napoletano seguiva lo stile dei filosofi piut-</s>
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