Caverni, Raffaello, Storia del metodo sperimentale in Italia, 1891-1900

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              di Galileo, il quale volle scrivere in una cocca del suo vessillo queste
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              parole:
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              Molti si pregiano di aver molte autorità d'uomini per con­
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              fermazione delle loro opinioni, ed io vorrei essere stato il PRIMO
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              e il SOLO a trovarle.
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              Abbiamo detto in una cocca, perchè spie­
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              gatamente in campo non sarebbero state lette tali parole dagli occhi
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              abbagliati de'riguardanti, se gli editori non le avessero accolte in
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              una nota apposta a piè di pagina (Alb. </s>
              <s>I, 440). Ma che giova l'espres­
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              sione delle parole, se d'ogni parte si sente alitar quello spirito di
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              conquista proprio di un che ha fermo oramai di voler essere in
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              tutto il
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              primo
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              e il
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              solo?
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              <s>I fatti che saranno candidamente narrati, nelle varie parti di
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              questa Storia, mostrano que'propositi fermi coraggiosamente man­
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              dati ad effetto, ma perchè troppo importa a noi di rappresentar fin
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              d'ora al giudizio dei nostri lettori l'opera galileiana sotto l'aspetto
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              di una conquista, e troppo ci preme di persuader fin d'ora i ritrosi
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              esser quello il vero aspetto, sotto cui s'appresenta la nuova instau­
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              razione scientifica, crederemmo di dover esser notati d'imprudenza,
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              asserendo cose tanto lontane dalla comune opinione, senza preva­
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              lerci di qualche discorso da servirsene come di prova. </s>
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              <s>Bacone scrive in un luogo del suo libro
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              De augmentis scien­
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              che non parve ad Aristotile potersi bene assicurare del
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              nisi, more Ottomannorum, fratres suos omnes contruci­
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              dasset
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              (Lugani 1763, Part. </s>
              <s>I, pag. </s>
              <s>211), e son, secondo il Verulamio,
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              de'più illustri fra que'trucidati fratelli, Pitagora, Filolao, Xenofane,
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              Anassagora, Parmenide, Leucippo, Democrito. </s>
              <s>Aveva così Galileo,
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              della Tirannide che meditava d'ìnstaurare, nello stesso Aristotile,
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              un esempio di tanto felice riuscita, che in ogni modo conveniva
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              imitare. </s>
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              <s>Platone e Archimede son tanto lontani e tanto innocui, che
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              non gli turbano i sonni. </s>
              <s>Ma glieli turba bene Ticone, glieli turba
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              il Keplero, i quali ambedue, a voler regnar solo, bisogna contru­
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              cidare. </s>
              <s>E benchè non si convenga, nè sia espediente tenere il modo
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              degli Ottomanni, son dirette pure a trapassare il cuore, colle loro
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              acute punte, e a trafigger Ticone quelle parole di Galileo, nelle
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              quali scrive del grande Astronomo danese, che calcolò le Tavole
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              Rodolfine, senza punto intender nè l'Almagesto di Tolomeo nè le
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              Rivoluzioni del Copernico, e che non sapeva neanco i primi ele­
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              menti di Geometria (Alb. </s>
              <s>VI, 329). Che se egli, e il suo seguace e
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              ammiratore Keplero, credessero di toglierli di mano lo scettro, non
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              gli fanno spavento que'due
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              egli gli assicura d'aver tanto </s>
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