Zanotti, Francesco Maria, Della forza de' corpi che chiamano viva libri tre, 1752

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19xv que lingua l’ uom ſcriva, ſe vuol ſcriver bene, e
con lode, biſogna che oßervi le regole di quella
lingua, in cui ſcrive;
et oltre a ciò raccolga le
parole e le forme più vaghe, e più proprie di eſ-
ſa, così che induca nell’ orazione un certo, per
così dir, ſapore, che ne diſtingua il linguaggio,
et una certa urbanità, la quale Cicerone ſtimò
neceßariiſſima in ogni diſcorſo, quantunque con-
feſſaße di non ſaper diffinirla.
E certo i grandiſ-
ſimi ſcrittori l’ banno ſempre con ogni ſtudio proc-
curata, faccendo ſcelta di quelle forme, che ſti-
maron più proprie, e per così dir native di quel.
la lingua, in cui ſcrivevano. E noi veggiamo,
che l’ Arioſto volle più toſto dire:
Che furo al tempo che paſſaro i Mori
che dire:
Che fur nel tempo, in cvi paſſaro i Mori
et amò meglin di dire:
ſopra Re Carlo, che:
ſopra il Re Carlo. E il Caſtiglione nel principio
della ſua lettera al Veſcovo di Viſeo diße:
paſsò,
di queſta vita, e non:
paſsò da queſta vita, o:
morì, perchè quand’ anche non foſſe errore il di-
re a queſt’ ultimo modo, pure non può negarſi,
che quella prima maniera non abbia molto più gra-
zia.
E certo altra vagbezza ha il dire: vedi a
cui io do mangiare il mio, come diſſe il Boccac-
cio, che non avrebbe il dire:
vedi a qual perſo-
na io do da mangiare la roba mia.
Le quali mi-
nuzie ſon veramente minuzie, et ognuna da ſe
è di pochiſſimo momento;
ma tutte inſieme,

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