Caverni, Raffaello, Storia del metodo sperimentale in Italia, 1891-1900

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1e dice “ debere deprehendi a perpendicularibus, quae a centro Librae ad
lineas inclinationis exiliunt ” (ibid.).
Secondo una tal regola dunque, prolungata la AC, e da O condotta al
OH perpendicolare sopra questo prolungamento, se con AO si rappresenta
tutto il valor della forza, OH è la misura giusta di quel che in lei rimane
di attivo, ciò che fa esatto riscontro con la regola desunta dalla risoluzione
del moto, essendo che i triangoli simili AEC, OHA danno AC:AE=OA:OH.
Nella instaurazion della scienza, felicemente avvenuta sui principii del
secolo XVII, si trovarono dunque fra gl'insegnamenti del Benedetti le re­
gole più sicure per computare i momenti, e veniva, così, a rendersi possi­
bile il promovere o il correggere i falli de'teoremi più antichi.
Il Cartesio
per verità, preferendo di misurar gli spazii nella quantità delle discese ver­
ticali, a modo del Nemorario e del Tartaglia, piuttosto che considerare i
moti più o men veloci negli archi dei cerchi; non sentì nè il bisogno nè
l'utilità delle regole insegnate dal Matematico nostro veneziano, ma Gali­
leo ne ricavò gran profitto, e deve alla loro sapiente applicazione se la sua
Scienza meccanica s'avvantaggia da molte parti sopra quella di Guidubaldo.
Il fondamento a quella Scienza meccanica, com'apparisce da ciò che se
n'è detto addietro a varie occasioni, è posto da Galileo nella teoria dei mo­
menti, ch'egli, quasi con le medesime parole del Maurolico, definisce “ quel­
l'impeto di andare al basso, composto di gravità, posizione o altro, dal che
possa essere tal propensione cagionata ” (Alb.
XI, 90). Mentre però il Mau­
rolico non aveva considerato quella posizione, se non che nel caso più co­
mune e particolare de'centri di gravità o delle sospensioni in una medesima
linea orizzontale, Galileo contempla anche il caso che quegli stessi centri si
trovino a varie altezze, per essere le braccia della Bilancia o incurve o an­
golari, e rammemora perciò la Regola del Benedetti ai lettori, avvertendoli
“ come le distanze si devono misurare con linee perpendicolari, le quali dal
punto della sospensione caschino sopra le rette, che dai centri della gravità
de'pesi si tirano al centro comune delle cose gravi ” (ivi, pag.
91).
Il fondamento statico scelto da Galileo era senza dubbio d'assai più ge­
nerale applicazione di quell'altro, volutosi preferir dal Cartesio, ma riusciva
all'intelligenza alquanto più duro, essendo più facilmente disposta a conce­
der che un corpo tanto maggior momento acquisti quanto più scende, di
quel che non sia a conceder che un simile corpo, tanto acquisti maggior gra­
vità quanto più si dilunga dal centro della sua sospensione.
Vedemmo gli
sforzi che, incominciando da Aristotile, fecero per rivelare il mistero i Ma­
tematici antichi, e i Moderni pure avrebbero desiderato che Galileo avesse
fatto lo stesso.
La questione è vero era più filosofica che matematica, ma
perchè sentivasi che, se non utile, adornare la scienza di così fatte specu­
lazioni sarebbe stato almen bello; qualcuno della Scuola galileiana si provò,
non diciam di supplire al difetto, ma di esplicare in altra forma e di ri­
durre più direttamente alla Statica alcuni concetti del Maestro.
Noi vogliamo rammemorare ai Lettori in tal proposito i pensieri di An-

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