Caverni, Raffaello, Storia del metodo sperimentale in Italia, 1891-1900

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              <s>La riverenza, o forse più veramente il timore di non avere a scanda­
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              lizzare o provocarsi l'odio degli adoratori del Nume, consigliò a Guidubaldo
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              la prudenza di questa logica, ma il Benedetti, senza tante paure e senza
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              tanti riguardi, disse a chi lo voleva sapere che Aristotile, nella seconda parte
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              della sua seconda meccanica Questione, “ toto coelo aberrat, quia necessa­
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              rium est ut Libra omnino cadat ” (Specul. </s>
              <s>liber cit., pag. </s>
              <s>154). </s>
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              <s>Procedendo con la medesima libertà in esaminar la prima parte della
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              Questione, tutt'altro che commentare ossequiosamente il testo, come fa Gui­
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              dubaldo, argutamente il Benedetti notava che, non deducendola dalla gene­
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              ralità de'principii, non poteva risolvere Aristotile la sua stessa propostasi
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              questione, che con certe sue difettose ragioni. </s>
              <s>Causa, diceva, del tornare
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              dalla posizion violenta alla naturale la Libbra, “ non solum est maior quan­
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              titas ponderis brachiorum, quae iam praetergressa est ultra verticalem li­
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              neam, sed etiam est longitudo brachii elevati, quae ultra verticalem lineam
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              reperitur, unde eius extremi pondus redditur gravius in proportione ” (ibid.):
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              ciò che mostrasi dal Benedetti stesso anche più evidente, abbassando dal
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              punto H, nella figura LXXX, la verticale HQ, e da E conducendo la oriz­
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              zontale EQ, per esser dalla differenza delle due linee EM, MQ esattamente
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              misurata la differenza dei due momenti. </s>
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              <s>Voleva così confermare il Matematico veneziano l'utilità della Regola
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              delle distanze dal perpendicolo, per risolvere con precisione sicura questa e
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              altre simili statiche questioni, e perchè vedemmo non essere, a mezzo il se­
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              colo XVI, quella Regola nuova, si potrebbe congetturare che, in ridurre a
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              maggior precisione e in correggere i primi aristotelici quesiti dall'errore,
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              non fossero stati nè Guidubaldo nè il Benedetti stesso dei primi. </s>
              <s>Vengono
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              ora le congetture a ridursi a certezza di fatti, per le Note di Leonardo da
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              Vinci, in una delle quali si legge: “ La Bilancia di braccia e pesi eguali,
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              rimossa dal sito della egualità, farà braccia e pesi ineguali, onde necessità
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              la costringe a racquistare la perduta egualità di braccia e di pesi. </s>
              <s>Provasi
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              per la II di questo, e si prova, perchè il peso più alto è più remoto dal
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              centro del circonvolubile, che il peso più basso, e pertanto ha più debole
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              sostentamento, onde più facilmente discende e leva in alto la opposta parte
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              del peso congiunto allo estremo del braccio minore ” (Manuscr. </s>
              <s>E cit.,
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              fol. </s>
              <s>59). Ora, perchè la distanza del peso H, nella solita figura LXXX, dal
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              circonvolubile, ossia da qualunque punto della linea verticale, è MQ, e la
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              distanza del peso E è manifestamente EM, veniva dunque la prima parte
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              della Questione seconda di Aristotile risoluta da Leonardo, prima che dal
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              Benedetti, con la maggior possibile precisione, applicandovi la Regola dei
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              momenti. </s>
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              <s>Nè la seconda parte della medesima Questione, che si proponeva dal
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              gran Maestro della Meccanica a tutti gli studiosi di allora, poteva passare
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              alla scienza di Leonardo inosservata. </s>
              <s>Così infatti si legge in quest'altra sua
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              Nota, tenendo, nel computar la varietà dei momenti la stessa regola seguita
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              di sopra: “ Quanto lo estremo della superiore parte della Bilancia s'avvi-</s>
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