Caverni, Raffaello, Storia del metodo sperimentale in Italia, 1891-1900

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1stesso come gli s'eran venuti a svolgere nella mente i pensieri, quasi sem­
pre disegna disposte come nella figura C le carrucole, che hanno a servir
d'esempio alle sue proposizioni.
Veniva così benissimo a riconoscersi lo stru­
mento in ciò che ha di comune con le altre macchine, che pigliano la loro
virtù dai sostegni, e in ciò che gli è proprio, e lo rende una macchina par­
ticolare, per l'uso che vi si fa delle funi, le quali, avendo ugual tensione
nell'equilibrio, una piccola forza, che sopraggiungasi alla potenza, tutte le
vince, dice Leonardo stesso nel suo potente linguaggio, e tutte le muove.
L'espressione è resa dall'Aggiunti in quelle parole, poco dianzi citate, nelle
quali diceva che la sola forza, posta nel capo della corda che s'avvolge
alle girelle, è quella che tien per tutto tirata la corda, e che si va per
tutto insinuando in essa.
Era dunque bisogno venisse dimostrato che la forza s'insinua in tutta
la lunghezza della fune?
Senza dubbio: e se Galileo ne trattò in modo fisico,
fu l'Aggiunti il primo a darne matematica dimostrazione, com'apparisce da
ciò che si legge nel capitolo V del nostro II Tomo a pag.
215. Sembra che
rimanesse intorno a ciò ingannato, a principio, anche Leonardo, ma poi si
persuase del vero così espresso in una Nota, da noi anche altrove trascritta:
Ogni gravità sospesa è tutta per tutta la lunghezza della corda, che la
sostiene, ed è tutta in ogni parte di quella. D'ond'è facile intendere come,
seguitando a correre l'errore, che cioè non per tutta la lunghezza si diffonda
nella fune la forza uguale, non poteva Guidubaldo professare il principio
così semplice delle tensioni, a cui supplì con la ragion certissima del Vette.

Non era questo dunque un commettere errore, e tanto meno, come impu­
dentemente volle dire il Cartesio, uno scorrere in ridicolezze, ma piuttosto
era un difetto inevitabile a una scienza, alla quale era rotto il filo delle più
prossime tradizioni, e che, rimasta alle forze di un uomo solo, rendeva ine­
vitabili altri e maggiori difetti.
Nel Liber mechanicorum del nostro Urbi­
nate si suppon sempre, in qualunque disposizione di Taglie, che le funi ti­
rino fra loro parallele, ciò che non sempre nella pratica si avvera, e benchè
fosse facile sperimentare che quella perpendicolar direzion delle forze tor­
nava più vantaggiosa, la necessità nonostante portava a dover tirare spesso
in direzione obliqua.
In questo caso l'esperienza stessa mostrava che le relazioni fra la re­
sistenza e la potenza variavano, al variarsi l'angolo dell'obliquità, ma con
qual ordine si facesse una tal variazione non era facile a Guidubaldo il di­
mostrarlo, nè a Galileo, i quali perciò non vollero nemmen tentare l'arduo
problema.
Al difetto, in cui lasciarono i due Matematici la scienza, aveva
come vedemmo largamente supplito Leonardo, il quale, con la regola della
composizion delle forze, facendo rappresentare il peso alla diagonale, deter­
minava la tension delle funi a proporzione de'due lati opposti nel paralle­
logrammo.
Veniva così, un secolo e mezzo prima del Varignon, ridotta alla
sua più desiderabile perfezione la teoria delle Taglie, e nella fune gravata
da pesi, ridotta alle più certe leggi della Statica, s'incominciò a riconoscere

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