Gallaccini, Teofilo, Perigonia, o vero degli angoli, ca. 1590-1598

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              angolo sotto cui è veduta la grandezza più vicina; al minore sotto ‘l quale è veduta la grandezza più lontana, che non è l’intervallo maggiore della grandezza lontana. </s>
              <s>Non potersi veder alcuna ragion d’angoli posti lontani alla vista. </s>
              <s>Quest’accidente si manifesta nel teorema 9°, là dove si legge: Le grandezze rettangole che di lontano son vedute appariscono ritonde. </s>
              <s>La cagione di quest’effetto si cerca da Alessandro Afrodiseo nel 37° Pub. </s>
              <s>Ma se ne rende la ragione più filosofica che matematica ed è che l’occhio non può da lontano veder gli angoli, essendo sotto li iguali levati, ciò che rimane apparisce ritondo. </s>
              <s>Ma secondo la prospettiva avviene altramente; perciochè questo effetto avviene sì per cagion della distanza che è fra l’obbietto e l’occhio, sì anchora per cagion della figura angolare. </s>
              <s>Dalla figura angolare nasce ‘l non si poter vedere gli angoli di lontano, perciochè sempre la larghezza della figura è minore appresso gli angoli che altrove; onde non è maraviglia se di lontano gli angoli non apparischino e così ancho le parti vicine agli angoli; e quindi è che di due linee se ne forma una sola. </s>
              <s>Dalla distanza procede lo svanimento degli angoli perciochè ogni cosa visibile ha una determinata distanza la quale passata non si può più vedere e ciò facilmente avviene agli angoli che sono di pochissimo estendimento. </s>
              <s>Perciochè fra le conditioni che si richiedono a formar la visione una si è la debita lontananza che è fra l’obbietto e l’occhio e però ‘l Filosofo nel cap. 8° De sen. et sen. disse: Il vedere
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              cagionarsi in una distanza tale che in essa sia collocata qualche cosa che sia prima e qualche cosa che sia ultima oltre alla quale non si possa discernere che non è altro che dire che alla perfetta visione si richieda la determinata distanza dell’occhio all’obbietto. </s>
              <s>E per questa ragione Alessandro Afrodiseo nel 4° della Metafisica, nel comm. .55. c.115, diceva che allhora il vedere dimostra la verità quando si rimira da un intervallo mediocre non quando da lontano. </s>
              <s>Ma torniamo a considerar gli accidenti dell’apparenze. </s>
              <s>L’occhio che dirittamente alla linea retta, od a cosa che per linea retta si erga sopra ‘l piano non poter veder la sua longhezza. </s>
              <s>La qual cosa si afferma da Egnatio Danti con l’autorità di Vitellione nell’annotatione del 22° teorema della Prosp. </s>
              <s>Ma la ragione di questo si è perciochè l’occhio vede la linea in un punto, onde concorrendo i raggi visuali in esso e confondendosi insieme, non posson formare il conio e per conseguenza neancho l’angolo; perciochè ‘l punto non è atto ad esser base del conio, essendo indivisibile; e se pure è divisibile, essendo punto di Prosp., cioè visuale, in ogni modo non può essere bastevole ad esser base del conio, onde segua un angolo che sia buono a far discerner l’obbietto essendo d’un’acutissima e strettissima grandezza. </s>
              <s>E se per avventura l’occhio starà a piombo sopra una colonna, non potrà veder la sua longhezza, poiché la vedrà tutta nella superficie più vicina, la quale sarà al base conio. </s>
              <s>Il medesimo effetto si potrebbe sperimentare collocando l’occhio e la linea e la colonna nel me</s>
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