Caverni, Raffaello, Storia del metodo sperimentale in Italia, 1891-1900

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              <s>
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              Aristotile era immeritata, imperocchè moltissime delle cose scritte
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              da lui son desunte da più antichi filosofi, specialmente pitagorici,
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              e altrove più ricisamente soggiunge che Aristotile stesso ne'suoi
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              libri poco o nulla ha del suo. </s>
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              <s>Da ciò è facile intravedere la risoluzione presa dal Filosofo
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              dalmata di rivolgersi ad altre scuole e con preferenza alla pitagorica
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              e alla platonica, o meglio di speculare colla sua propria ragione,
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              piuttosto che con quella del preteso maestro di coloro che sanno. </s>
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              Una tal animosa risoluzione viene eloquentemente espressa dal­
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              l'Autore in quella Apologia, che egli scrisse contro un tal Teodoro
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              Angeluzio, che s'era accanitamente posto contro i nuovi insorti a
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              difendere il sacro regno peripatetico. </s>
              <s>“ Ma regnate, egli dice in la­
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              tino eloquio, regnate, infintanto che a voi è lecito o piace. </s>
              <s>Noialtri
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              omiccioli lasciateci vivere, lasciateci spirar quest'aure, che sono a
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              tutti comuni, permetteteci sentimenti e idee, che non sieno aristo­
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              teliche. </s>
              <s>Non ci disprezzate, non ci avventate ingiurie, non carica­
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              teci di calunnie. </s>
              <s>Non vi adirate con noi, perchè non guardiamo ai
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              medesimi obietti e non accolghiamo i medesimi responsi. </s>
              <s>Permet­
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              teci poter esser platonici, se vogliamo, e in Filosofia piuttosto amici
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              a Plotino a Proclo a Damascio, che a que'vostri omaccioni, Averrois,
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              Duns, Janduno, Tartareto, e simili altre filosofiche quisquiglie. </s>
              <s>Per
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              metteteci di pensare anche qualche cosa col nostro ingegno, tenue
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              sì ma libero. </s>
              <s>Non ci siate tiranni nè vogliate implicarci nelle reti
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              delle vostre contenzioni o avvolgerci fra le tenebre de'vostri dom­
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              mi ” (Ferrariae, 1584, pag. </s>
              <s>4). </s>
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              <s>Da così fatte parole del Patrizio, come da altre simili che si
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              potrebbero citar dal Telesio, si sentono spirar con impeto le aure
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              della libertà, ma quell'impeto è temperato, e se fa piegar gagliar­
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              damente le fronde, pur non le schianta. </s>
              <s>Non è così de'due altri
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              insorti a detronizzare Aristotile poco dopo i tempi del filosofo con­
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              sentino e del dalmata. </s>
              <s>Essi sono due frati, che perciò ingaggiano
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              una doppia battaglia, contro i Filosofi e contro i Teologi dei loro
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              tempi e hanno fieramente impugnato le armi contro due regni fra
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              sè confederati: quello del Peripato e quello della Scolastica. </s>
              <s>L'uno
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              di que'due, nato a Nola, verso la metà del secolo XVI, e spento
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              nel 1600 per morte violenta, è il celebre Giordano Bruno, l'altro,
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              nato in Stilo di Calabria e che passò molta parte della vita, decor­
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              sagli dal 1568 al 1639, nel fondo di una carcere, è il non men ce­
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              lebre Tommaso Campanella. </s>
              <s>Son due fieri ingegni: lo spirito di li­
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              bertà soffia dal loro petto, colla furia incomposta dell'uragano, per </s>
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