Caverni, Raffaello, Storia del metodo sperimentale in Italia, 1891-1900

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              <s>
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              all'ufficio nostro, ed insieme meglio appropriato allo scopo, il tentare un
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              giudizio sintetico, almeno per ciò che concerne la prima parte, dal quale
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              risultino in evidenza i criteri generali ch'egli ha seguìti nello svolgimento
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              dell'arduo tema; dal qual giudizio apparirà che, se molto abbiamo fortuna­
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              tamente da lodare, questo poderoso lavoro non apparve tuttavia agli occhi
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              nostri affatto scevro da mende, le quali abbiamo reputato nostro dovere di
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              non passare sotto silenzio. </s>
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              <s>E quanto alle fonti, diciamo subito che l'Autore, pur avendo pienissima
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              conoscenza delle italiane edite e inedite, di queste anzi tale e tanta da non
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              potersi desiderare maggiore, pecca alquanto di difetto nella cognizione delle
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              straniere, e nei giudizi intorno ad esse formulate; e questo carattere si ri­
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              specchia in tutto il lavoro, ed è causa talvolta di giudizi non scrupolosa­
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              mente esatti, e tal'altra di lacune, le quali tuttavia a lui, meglio che ad
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              ogni altro, riuscirà agevole il colmare. </s>
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              <s>Meno lieve ci apparve invece l'altra menda, che deriva da un troppo
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              facile invaghirsi della novità delle conchiusioni, la quale, sia pur detto con
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              tutta la deferenza, che si merita uno studioso di tanta levatura, quanta ne
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              dimostra il nostro Autore, lo induce talvolta ad una interpretazione dei do­
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              cumenti, la quale a noi non parve sempre scrupolosamente conforme al ri­
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              gore storico. </s>
              <s>E poichè quesa imputazione non può mantenersi campata in
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              aria; ma è pur mestieri fornirne una qualche giustificazione, è d'uopo che
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              noi entriamo in alcuni particolari. </s>
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              <s>L'Autore si manifesta senza reticenze ammiratore profondo di Galileo
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              (e chi mai non lo sarebbe?); ma egli, forse posto in sull'avviso dall'ingiusto
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              giudizio di chi volle esaltare Galileo con pregiudizio di tutti i contemporanei,
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              e non consentendo in esso, pare quasi sempre in guardia contro conchiu­
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              sioni che al sommo filosofo riescano soverchiamente favorevoli, ed il
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              ratio­
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              nabile obseqium,
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              che lo storico deve prefiggersi come massima indeclina­
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              bile, è da lui spinto, ci sia lecito il dirlo, ad un eccesso che noi reputiamo
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              ingiustifistificato. </s>
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              <s>Noi non consentiamo col nostro autore nella incondizionata ammira­
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              zione per Fra Paolo Sarpi scienziato; ma quand'anche dividessimo tutto
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              intero il suo entusiamo, non sapremmo mai indurci, come egli vorrebbe, a
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              dividere fra Galileo ed il Sarpi il merito delle scoperte annunziate al mondo
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              dal
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              Sidereus Nuncius.
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              I giudizi del Borelli sulle cose galileiane, inspirati
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              in gran parte dal desiderio di far dispetto all'odiato Viviani, da lui accettati
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              troppo facilmente, lo inducono a defraudare Galileo della parte che gli spetta
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              nella invenzione del termometro. </s>
              <s>Arrischiato poi, ed in nessun modo giu­
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              stificato dagli adotti documenti, e nemmeno dalle sue stesse conchiusioni,
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              non esitiamo ad affermare il tentativo di spogliare Galileo del merito, che
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              incontrastabilmente gli spetta d'aver scoperta la natura della curva descritta
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              dai proietti. </s>
              <s>E questo noi notiamo colla piena certezza che l'autore, richia­
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              mato a ponderar meglio questi argomenti, riformerà i suoi giudizi. </s>
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              <s>Imperocchè, se a lui, che, forse per il primo, con intelletto d'amore si </s>
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