Gallaccini, Teofilo, Perigonia, o vero degli angoli, ca. 1590-1598

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            <p type="main">
              <s>
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              luce, onde forse per questa ragione Averroe nel lib. de sen. et sen. disse esser propio del vedere haver la presenza del cono lucido, cioè dell’obbietto illuminato con questo conio luminoso. </s>
              <s>La qual cosa non intendendo bene alcuni Filosofi antichi, secondo che racconta Aristotile nel lib. </s>
              <s>De sen. et sen., cap. 2, dissero ‘l vedere esser fuoco. </s>
              <s>Il che appresso di esso nel med. lib. nel cap. 2 dimostra Empedocle, facendo comparatione del fuoco del vedere, cioè della luce degli occhij al lume racchiuso nella lanterna, come si vede ne’ suo’ versi.</s>
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              <s>Seu casu quis progredi meditans lanternam preparavit</s>
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              <s>Hybernam per noctem ignis ardentis lumen </s>
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              <s>accendens splendidum cornu omnimodi obstaculum flatus,</s>
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              <s>Quod ventorum quidem flantium dissipat spiritum.</s>
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              <s>Extrinsecus autem extensum exiliens quantum procurrevit lumen,</s>
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              <s>Splendevit per pavimentum indomitis radijs,</s>
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              <s>Sic quod in tuniculis costringitur antiquis ignis.</s>
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              <s>Subtilibus velis rotundam complectitur pupillam</s>
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              <s>Que circumfluentis profundum continet aque.</s>
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              <s>Ove si vede espressamente che ‘l fuoco o lo splendore compreso nella pupilla dell’occhio è quasi un lume racchiuso nella lanterna essendo contenuto dalle torricelle dell’occhio: e come la luce chiusa nella lanterna penetra l’osso, il talco, o ‘l vetro e illumina il luogo oscurato dalle tenebre della notte l’Inverno; così la
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              detta luce natia dell’occhio trapassa oltre agli altri humori, ancho l’humor aque; perciochè ancho ‘l Filosofo nel med. luogo disse la pupilla e l’occhio esser acque per cagion degli humori che concorreno a formarlo; ma riguardando alla luce contenuta in esso che da Empedocle e dagli antichi è appellata fuoco, disse pur nello stesso luogo la pupilla essere come il lume della lanterna, la quale rotta si fanno le tenebre. </s>
              <s>Onde possiamo ritrarre che quella cosa luminosa che si contiene nel conio della vista sia ‘l lume della pupilla. </s>
              <s>Quindi adunque si ritrahe lo scioglimento del dubbio che se s’apre il conio de’ raggi visuali ha per base il cerchio, benchè spesse volte la figura veduta sia angolare perciochè lo spazio che circonda l’obbietto è sempre di questa figura. </s>
              <s>Ma per tornare al proposito nostro diciamo pure che l’uso dell’angolo nella prosp. si conosce per l’uso del conio, che è effetto dell’angolo, perciochè dall’angolo prende origine. </s>
              <s>E che ciò sia vero si rimiri, che tutto quel che si vede dagli occhi nostri si vede per virtù del conio fatto da’ raggi visuali; onde, perché talvolta ha l’angolo minore, talvolta maggiore e tal’hora ancho uguale, perciò è cagione che l’obbietto ci apparisca tal’hora uguale, tal’hora maggiore e talvolta minore. </s>
              <s>Onde Euclide nella .5a. supposizione disse: Quelle cose che sotto maggior angolo si veggono ci appariscono maggiori. </s>
              <s>E nella .6a.: Quelle che sotto minor angolo si veggano appariscono minori. </s>
              <s>E nella .7.: Quelle che sotto uguale angolo si veggano appariscono uguali. </s>
              <s>Di modo che quindi si cono</s>
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